Carissimi nipotini,
credo che la storia dei folletti burloni ben si inserisca nell’allegra atmosfera del carnevale.
Il racconto potrebbe iniziare così: c’erano una volta tanti folletti burloni…
Sembra quasi l’inizio di una fiaba e probabilmente queste strane creature appartengono proprio al mondo incantato delle favole tanto caro a voi bambini.
Qualcuno però, e non era un bambino, qualche giorno mi ha chiesto: “Secondo te i folletti sono veramente esistiti?”
Lì per lì mi sono messo a ridere, ma poi mi sono venute in mente alcune storie relative a queste curiose creature che i miei genitori e i miei nonni mi raccontavano quando ero piccolo.
La cosa mi ha incuriosito e quindi ho cercato di documentarmi un po’ e di far riaffiorare i ricordi delle testimonianze dirette dei racconti dei vostri bisnonni.
Secondo le leggende, questi piccoli esserini, grandi poco più di uno scoiattolo, si manifestavano principalmente in ambienti rurali situati nelle vicinanze di fitti boschi.
I nostri genitori, cioè i vostri bisnonni e anche noi fino a circa vent’anni, abbiamo abitato in due paesini della bergamasca, arroccati ai piedi delle Alpi Orobie.
In questi paesini, fino ai primi anni del 1900, l’economia era ancora prevalentemente agricola e quindi ben si prestavano ad ospitare le leggende e le gesta di questi spiritelli dall’aspetto bizzarro e qualche volta anche sgradevole.
Esistono curiose ricerche in materia che, attingendo a leggende, credenze e testimonianze scritte del XV e XVI secolo, hanno permesso di ricostruire un capitolo specifico su quello che veniva definito come “IL FOLLETTO OROBICO”.
All’interno di questo studio sono elencati almeno una quindicina di folletti.
L’aspetto e il nome di ognuno di loro era spesso legato al luogo specifico dove maggiormente manifestava la sua presenza e al tipo di burle che era solito fare.
Ma veniamo ora ai racconti delle testimonianze dirette dei vostri genitori e vostri bisnonni, che pur essendo nati all’inizio del XX secolo, si ricordavano la presenza di queste strane creature.
Ricordo abbastanza bene, anzi quando ne parlava era presente anche la vostra nonna Lina, la mia mamma Maria che ancora in età avanzata raccontava questi episodi.
Erano riferiti al suo periodo di ragazza quando abitava nella casa paterna di Castelfranco e stuzzicata sull’argomento raccontava:
“All’epoca il pasto giornaliero era costituito quasi sempre e quasi esclusivamente dalla polenta di granoturco perché era il cereale più coltivato e più economico che quasi tutte le famiglie potevano permettersi.
A quei tempi, non c’erano cucine economiche ne tanto meno a gas.
La polenta, come tutti gli altri piatti, veniva cotta su un paiolo di rame attaccato ad un gancio del camino.
Dopo le prime manciate di farina buttate nell’acqua bollente, era importante fare con il mestolo alcuni segni di croce, questo per almeno due motivi: il primo era per ringraziare Dio per avere l’opportunità di un nuovo pasto e il secondo, non meno importante, per scoraggiare i folletti che avevano l’abitudine di prendere il paiolo con la polenta pronta e nasconderlo in qualche angolo remoto della casa.
Quando questo succedeva si andava in cerca del paiolo e una fragorosa risata segnalava dove era stato nascosto. Raggiunto il posto però, del folletto non rimaneva nessuna traccia tranne l’eco della sua risata”.
Può darsi che la sporadica sparizione del paiolo della polenta fosse dettata dalla grande fame o fosse solo lo scherzo di qualche spiritoso componente della famiglia ma mia mamma ci credeva e, per tutta la vita, non ha mai abbandonato l’abitudine di fare alcuni segni della croce con il mestolo prima di iniziare a cuocere la polenta trasmettendolo questo gesto anche ai figli.
Tutt’ora anch’io, quando inizio a cuocere la polenta, traccio sempre alcuni vistosi segni di croce con il mestolo.
Un’altra burla frequente, che mia mamma raccontava, era questa:
“Le camere da letto della mia casa paterna, così come quasi tutte le abitazioni dell’epoca, erano situate al piano superiore.
I lavori nelle stalle e nei campi necessitavano di alzarsi presto e quindi la sera dopo la cena, ci si riuniva un momento nella stalla, si recitava il rosario e si andava subito a dormire.
Capitava alcune volte che nel bello del sonno si sentissero dei rumori nella cucina: sedie e tavolo che si spostavano; sportelli degli armadietti che sbattevano e piatti che tintinnavano.
Noi bambini (dormivamo in tre o quattro per letto normalmente due di testa e due i piedi), al sentire i rumori, per la paura, affondavamo la testa sotto le lenzuola e ci stringevamo l’un l’altro per farci coraggio.
Se i rumori duravano un po’, spazientito, il mio papà scendeva in cucina a controllare ma regolarmente non trovava nessuno mentre l’eco lontana di risate segnava la fine dei rumori, almeno per quella notte.
Rimettendosi a letto il mio papà brontolava sottovoce e minacciava di prendere a scopate i folletti qualora fosse riuscito ad averli a tiro”.
Questi episodi, sono solo una piccola parte di quello che i folletti facevano.
Il tema è troppo curioso e simpatico per esaurirlo con questa letterina e, sicuramente, riprenderò l’argomento.
Nell’attesa invito i lettori, qualora ne siano in possesso, a condividere le eventuali testimonianze vissute in prima persona o che gli sono state trasmesse.
E, immaginando l’eco della risata dei folletti, vi saluto caramente
nonno Antonio
L’immagine di copertina è di Jeff
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