Carissimi nipotini,
ci eravamo lasciati con il racconto che i miei zii, attorno al 1946, avevano trasferito la loro attività di panificatori e di rivendita di generi alimentari, nel paese di Volpino, frazione del comune di Costa Volpino.
La gestione di questo forno e la relativa rivendita fu affidata principalmente ai due fratelli non sposati, Santo e Letizia. Paolo invece continuava ad abitare a Castelfranco dove insieme alla moglie gestiva il negozio.
Ogni mattino presto (attorno alle tre) si recava a Volpino, con mulo e carretto, a dare una mano ai fratelli per la panificazione e a ritornava al paese attorno alle sei con il quantitativo di pane per la sua rivendita.
L’esperienza maturata prima a Pietracamela e poi a Lovere, unita alla “fame di pane” della rinascita economica del dopo guerra, fecero sì che l’attività iniziasse subito a dare buoni risultati rendendo presto necessario un aiuto fisso.
È a questo punto che il mio cugino Claudio, classe 1939 e figlio dello zio Martino, finite le scuole elementari, a soli 12 anni, iniziò a fare il garzone presso il forno degli zii.
Quando mio cugino Claudio iniziò a lavorare come garzone fornaio, io ero appena nato e quindi quello che racconterò ora, anche se con parole mie, è tutto frutto dei ricordi che lui mi ha confidato.
“All’epoca del primo forno a Volpino, non c’erano macchinari. Si impastava tutto a mano, si sminuzzava a mano la quantità di ogni singolo panino che poi veniva lavorata sempre a mano per dargli la forma richiesta.
Era un lavoro che richiedeva anche una notevole forza fisica e comportava molta fatica. Le braccia che erano sempre libere da maniche (di solito si lavorava in canottiera o al massimo con la maglietta della salute in qualsiasi stagione), diventavano forti e muscolose.
Si iniziava attorno alle due di notte e si continuava ad impastare, sminuzzare, modellare e infornare fino a tarda mattinata. Verso mezzogiorno tornavo a Castello a piedi portando sulle spalle sempre un sacco di pane di almeno una ventina di chili.
La strada, sterrata e lastricata da sassi, era un saliscendi che costeggiando la costa portava da Volpino a Castello e, di buon passo, ci si impiegava circa un’ora. Questo tutti i giorni della settimana, sabato e domenica compresi, infatti non era ancora stato introdotto il riposo settimanale.
Capitava a volte che il pane che portavo a Castello non fosse sufficiente per il bisogno giornaliero ma, ritornare a rifornirsi al forno di Volpino avrebbe richiesto un paio d’ore, ammesso che anche lì ci fosse ancora dell’eccedenza.
Ricordo ancora come fosse oggi che un giorno, a mezza strada incontrai lo zio Paolo che, valutando troppo poco il pane che quel giorno portavo sulle spalle, a tutti i costi, voleva farmi tornare indietro a prenderne dell’altro.
Io, anche se ero solo un ragazzo, mi rifiutai categoricamente e arrivato al paese dissi ai miei che io non avrei più fatto quel lavoro. Sbollita la rabbia e con la mediazione della cara zia Letizia, il giorno dopo ritornai al mio lavoro e da quel giorno non mi venne più contestata la quantità di pane che portavo al paese.
La domenica e i giorni festivi, alla quantità del pane giornaliero, si aggiungeva un servizio che al giorno d’oggi sembra un po’ strano ma che all’epoca era molto richiesto e apprezzato.
Parecchie famiglie del paese preparavano le teglie con il loro pasto domenicale (arrosti di coniglio con patatine, anatre con verza, galline e tacchini ripieni ecc.).
In mattinata ce le portavano e, finito di infornare il pane, le mettevamo nel forno che era ancora caldo togliendole di tanto in tanto per controllare e girare il contenuto.
All’uscita della messa solenne delle undici, le donne passavano dal forno a ritirare il loro pasto perfettamente cotto e ancora fumante.
Con poche lire avevano risolto il problema del pranzo della domenica. Vi garantisco che la cottura al forno di queste prelibatezze era eccezionale e riempiva tutto il locale di un profumino invitante tanto che era difficile resistere a non assaggiarne.
A tutto questo, nei giorni prima della Santa Pasqua, si aggiungeva la cottura di focacce nostrane molto ricche di uova e burro, che in dialetto chiamavamo “Spongade”.
Le donne arrivavano con ceste intere di focacce già lievitate e avvolte in ruvide pezze di tela e bisognava stare attenti a non mescolare quelle di ciascuna cesta. Anche questa cottura riempiva il locale del forno di un profumino dolce e invitante e non era insolito che qualcuno ce ne lasciasse una.
Un’altra abitudine che ora sembra strana era quella di raccogliere parte del grano prodotto dai contadini e di assegnare in cambio una certa quantità di pane che si sarebbe ritirata durante l’anno.
In estate, dopo che il frumento era stato raccolto, venivamo contattati dalle famiglie contadine per passare a ritirare una cera quantità di grano.
Il grano era stivato in enormi sacchi dal peso anche di 100 chili che dovevano spesso essere trasportati dalla soffitta, attraverso scale malmesse, fin sopra il carretto che poi portavamo al mulino.
Per qualche mese sono anche andato a Trucazzano a sostituire mio fratello Adolfo che lavorava con lo zio Guglielmo.
Lì, oltre ai normali lavori che ormai conoscevo, c’era anche il compito della distribuzione che avveniva con un’enorme e pesante bicicletta con una cesta davanti e una dietro. Io, non essendo ancora tanto grande, quasi scomparivo all’interno delle due ceste”.
Il mio cugino Claudio conclude il suo racconto più o meno con queste parole: “Il lavoro di quei tempi era pesantissimo e a volte insopportabile, ma mi è servito come insegnamento di vita perché quel poco che faticosamente si riusciva a realizzare allora, valeva molto e si apprezzava di più”.
In pratica questa sua constatazione, ricalca il proverbio secondo il quale si dice che:
“Il pane più saporito è quello che si guadagna con il proprio sudore”.
Con questa perla di saggezza antica, che credo calzi alla perfezione, ringrazio il cugino Claudio per i preziosi ricordi e insegnamenti che giro a me stesso, a voi nipotini e a tutti i lettori del blog.
Nella prossima letterina cercherò di ricordare le mie piccole e personali esperienze vissute nello stesso forno e nello stesso ruolo una quindicina di anni dopo.
Un caro saluto da nonno Antonio
L’immagine di copertina è di SALVADONICA BORGO DEL CHIANTI
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