Restiamo a casa

Carissimi nipotini,
oggi voglio parlarvi di quello che diventerà tristemente famoso e cioè del contagio del virus battezzato Coronavirus o più tecnicamente Covid 19.
Scrivo a voi affinché da grandi possiate conoscere, a fianco dei numeri, delle varie fasi dei contagi e delle polemiche che troverete facilmente nei libri di storia, il dramma morale degli ammalati e dei loro familiari.

Per solidarietà personale alle enormi sofferenze fisiche e morali dei contagiati e dei loro familiari e nel tentativo di far leva su coloro che ancora non hanno ben compreso la gravità del problema, per la prima volta mi rivolgo direttamente ai lettori di questa piccola rubrica.

Carissimi Follower,
siamo ormai all’inizio della quinta settimana dall’applicazione delle prime misure restrittive (a quell’epoca solo in Lombardia e in qualche altra provincia) per cercare di contenere la diffusione del contagio che purtroppo non accenna a diminuire e mentre, se da un lato aumenta il numero dei guariti, dall’altro aumenta spaventosamente anche il numero dei ricoverati e soprattutto dei morti.

Vorrei porre l’attenzione oltre che sulla sofferenza fisica anche sulla sofferenza morale. Quando lo sviluppo della malattia si aggrava tanto da non consentire più il decorso in casa, l’;ammalato viene “prelevato” da una troupe di infermieri completamente “bardati” che lo accompagna in ospedale a sirene spiegate (tutti abbiamo ormai nelle orecchie questo suono lugubre che si ripete molto spesso nel corso di queste giornate).

Questo è il primo shock per il paziente e per i suoi familiari. Una volta arrivato nell’ospedale, l’ammalato viene collocato in un ambiente completamente isolato dove, per tutto il tempo del suo ricovero, non è possibile nessun tipo di contatto fisico o visivo con l’ambiente esterno, fatta eccezione delle chiamate e video chiamate dei cellulari.

Purtroppo questo vale anche nel caso estremo che il paziente non ce la faccia e, in questi casi disperati, l’ammalato si spegne senza il conforto di un parente, il quale non ha nemmeno la possibilità di vederlo per un’ultima volta e di dargli una degna sepoltura.

Ho ascoltato a questo proposito la struggente e commossa testimonianza di una infermiera che cerco di riassumere con parole mie: “Questi ammalati, quando entri a fargli le terapie, ti cercano con gli occhi e, desiderosi di un
contatto umano, ti prendono la mano e non te la lascerebbero più”.

“Purtroppo noi abbiamo pochissimo tempo da dedicare a ciascun ammalato e dopo poco siamo costretti a staccarci
da quella mano che vorremmo tanto tenere stretta senza il neutro guanto in lattice, per comunicargli tutto il nostro calore, la nostra condivisione e il nostro incoraggiamento a non mollare”.

In questi giorni è stata pubblicata sui social anche una bellissima poesia di Gabriele Corsi che, ipoteticamente, immagina che quelle persone che finiscono in un letto anonimo di un reparto isolato, possono essere rispettivamente padre, madre, zio, zia, parente, amico, vicino.

Andate a leggerla sicuramente vi commuoverà e vi farà riflettere così come ha commosso e ha fatto riflettere me e migliaia di italiani. Pensate che nella sola giornata di ieri i decessi in Italia per infezione da coronavirus, sono
stati uno ogni 3,4 minuti.

Con queste parole e testimonianze scioccanti non voglio farvi perdere la tranquillità né spaventarvi, ma semplicemente mettervi e mettermi difronte alla drammaticità della realtà di questo contagio e capire che, per interrompere questa catena di dolore e di morte, è indispensabile il mio comportamento attivo e responsabile.

In questi giorni girano sui social tanti spot sull’argomento. Alcuni sono veramente di cattivo gusto, ma ci sono anche appelli di personaggi famosi e spot intelligenti.

Voglio chiudere la mia letterina proprio con la descrizione di uno di questi. L’immagine ritrae un grosso girotondo fatto di cerini messi in piedi uno vicino all’altro. Viene acceso il primo cerino e, uno alla volta, quello a fianco, prende fuoco.

Se non succede niente, pian pianino, tutti i cerini si accenderanno chiudendo il cerchio con la distruzione totale di tutti i cerini. Ma ecco che un cerino improvvisamente fa un passo indietro e il fuoco, arrivato li, non può più propagarsi e si spegne.

Credo che la metafora dei cerini non abbia bisogno di spiegazioni. Ognuno di noi deve essere come quel cerino, fare un passo indietro rimanendo a casa, perché solo così interrompe la trasmissione del fuoco del contagio.

Voglio chiudere con un pensiero di grandissimo ringraziamento e di plauso a tutto il personale infermieristico, medico, e volontario di ogni genere.
Grazie, per il vostro tempo, la vostra professionalità, la vostra umanità, il vostro coraggio, la vostra abnegazione e speriamo che la società civile si ricordi di voi anche in tempi di “normale bisogno”.

nonno Antonio

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