Carissimi nipotini,
come ho preannunciato, oggi vi voglio parlare dello spazio che per tanti anni è stato adibito a stalla e che ha avuto una storia tanto importante nella vita della mia famiglia così come ampiamente vi ho raccontato nelle precedenti letterine.
Questo spazio, con la ristrutturazione della casa paterna e la costruzione della nostra casa, venne adibito ad officina (o bottega, “butigà” come la si chiamava allora nel mio caro dialetto). Questa però non fu la prima officina in cui lavorò il mio papà, bensì la seconda.
Per comprendere meglio la storia dell’officina, bisogna tornare alla giovinezza di mio padre e di suo fratello Francesco (per tutti Checò o Chichi). Entrambi, fin da giovani, avevano trovato lavoro nella Ferriera di Castro (nel comune di Lovere) in qualità di manutentori. Ben presto avevano imparato il mestiere e manifestato una passione e una maestria particolare nella lavorazione del ferro tanto che pian pianino avevano attrezzato un locale della vecchia casa paterna dove nel tempo libero realizzavano piccoli lavori di fabbro per arrotondare il bilancio familiare.
In particolare, i due fratelli si erano specializzati nella costruzione di catene in ferro battuto, catene che potevano andare a costituire la recinzione di edifici pubblici (per esempio tutta la catena che è contenuta nei pilastri in pietra dell’esterno del cimitero vecchio di Gratacasolo è stata realizzata da loro due).
Altri impieghi meno vistosi delle catene potevano essere quelle usate per imbragare gli animali per la trazione dei carretti oppure le classiche catene dei camini. Non so bene, non avendolo mai visto perché quando mio padre e mio zio eseguivano questi lavori io non ero ancora nato o ero molto piccolo, in che cosa consistesse la realizzazione di queste catene.
Posso immaginare comunque che si partisse da un profilato tondo e attraverso il calore della forgia il ferro venisse reso incandescente in modo da poterlo lavorare con il martello e l’incudine e ricavarne un anello della forma e della dimensione desiderata che veniva chiuso a caldo unendo i due lembi dell’anello stesso. Fatto un anello si passava al successivo che, dopo essere stato infilato nel primo anello e avergli dato la giusta forma, veniva a sua volta chiuso e così avanti fino ad ottenere la catena della lunghezza desiderata.
Un lavoro sicuramente lungo e pesante, ma dovete sapere che la maestria di questi “artisti” nell’uso del martello che batte sul ferro incandescente contro l’incudine era tale che i tempi e la precisione delle forme a volte potevano competere con un prodotto analogo stampato o ottenuto per fusione.
Come ho già detto, io non ricordo il lavoro di costruzione delle catene, ma ricordo molto bene la realizzazione di altri prodotti in ferro battuto da parte di mio padre e i colpi di martello sull’incudine (incudine e martello una accoppiata indispensabile per la lavorazione del ferro battuto) erano talmente precisi, cadenzati e ripetitivi da sembrare un ritmo musicale.
Oltre alle catene per imbragare gli animali da tiro, venivano confezionati anche i famosi campanacci che venivano messi al collo delle mucche quando si recavano al pascolo in modo che il contadino fosse in grado in ogni momento di individuare l’animale permettendogli di recuperarlo qualora si fosse allontanato dal resto del gruppo.
Guardando questa foto si può capire come questo campanaccio sia stato realizzato da un unico pezzo di lamiera rettangolare opportunamente bombata a caldo e piegata in due ad ottenere una campana. I due lembi sono stati poi uniti a caldo e fermati da due ribattini.
A completare il tutto, nelle due fessure lasciate dalla piegatura dei due lembi, è stato infilato un manico che nella parte interna regge un battacchio anch’esso ottenuto con ferro battuto e infilato e fissato a caldo. Forse esteticamente non è perfetta come una campana, ma vi assicuro che il suono è quello che si sente (peccato che non si possa avere il sonoro), quando andando in montagna, ci si imbatte in una mandria di mucche al pascolo.
Lavorando sulla dimensione e sullo spessore della lamiera usata, si riusciva anche a modificare e personalizzare il suono in modo che il pastore esperto riuscisse dal suono a conoscere la mucca a cui corrispondeva il rumore del campanaccio.
Le catene ed altri piccoli oggetti in ferro battuto necessitavano poi di una pulizia e di una lucidatura. Da sempre l’uomo si è accorto che la sabbia sottile sfregata o lanciata con forza e con ripetizione contro un oggetto, ha un forte potere pulente. Io stesso, ancora oggi, quando mi capita di pulire una bottiglia di vetro con all’interno del deposito di calcare dell’acqua o peggio ancora quando la bottiglia ha contenuto dell’olio, inserisco con un imbuto un paio di cucchiai di sabbia sottile, un po’ di acqua e agito energicamente per alcuni secondi.
Vi assicuro che il risultato è sorprendente. Oggi esistono moderne sabbiatrici che permettono di orientare un potente getto di sabbia contro qualsiasi oggetto, per esempio vengono usate con ottimi risultati anche per pulire antichi soffitti di legno.
Per la pulizia delle catene o di piccoli oggetti in ferro, i nostri avi costruirono una specie di botte in legno montata su un cavalletto e corredata da un manico con il quale era possibile ruotare la botte stessa. Questa botte aveva un’apertura attraverso la quale veniva inserita una certa quantità di sabbia e le catene appena terminate. Girando la botte, le catene venivano continuamente investite dalla sabbia che si spostava dal basso all’alto della botte e
provvedeva a pulire le catene dalle scorie della lavorazione e a lucidarle.
Questo “macchinario primitivo” non sono in grado di mostrarvelo in fotografia ma posso dirvi di averlo visto perché era sopravvissuto al trasloco delle attrezzature dalla prima officina a quella definitiva realizzata nello spazio che per tanto tempo era stata la stalla degli animali.
Con l’immagine di questo locale piuttosto scuro dove due fratelli, quasi un secolo fa si trovavano, con il calore della forgia e con tanta fatica e tanto sudore, a trasformare il ferro grezzo in oggetti di pubblica utilità, vi saluto e vi do appuntamento alla prossima letterina.
In essa, andrò a descrivere gli ultimi lavori eseguiti dai due fratelli in questo locale e il motivo e l’inizio dello spostamento dei pochi attrezzi dalla vecchia “bottega” a quella nuova realizzata al posto della stalla.
Nonno Antonio
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