Gli anni delle “scuole medie” (avviamento professionale) di nonno Antonio

Carissimi nipoti,
quando ho finito la quinta elementare, le possibilità che si presentavano erano la scuola media o l’avviamento al lavoro.

Entrambi i corsi avevano la durata di tre anni come d’altronde le medie attuali. Le medie di allora erano molto simili alle attuali e cioè con programmi più umanistici destinati a preparare i ragazzi agli studi superiori.

L’avviamento al lavoro, come dice la stessa parola, conteneva una parte di matematica e lettere ma puntava anche sulle materie tecnologiche e pratiche (officina meccanica, falegnameria, disegno tecnico) in modo da preparare i ragazzi per il mondo del lavoro. I laboratori non andavano però a discapito delle materie scientifiche in quanto venivano effettuati negli orari pomeridiani.

L’avviamento al lavoro aveva un orario quasi doppio rispetto a quello delle medie. L’unica differenza sostanziale tra i due corsi era che le medie davano libero accesso alle medie superiori e quindi all’eventuale università, mentre chi proveniva dall’avviamento professionale, se voleva accedere alle medie superiori, doveva sostenere un esame integrativo.

Questa disposizione, secondo me, probabilmente era frutto di una iniziale valutazione sbagliata in quanto l’avviamento professionale non era certo una scuola di serie “B” tanto è vero che in quegli anni il Ministero dell’istruzione corresse quella norma e rese libero accesso alle superiori anche agli studenti che provenivano da questa scuola.

Io feci proprio in tempo a beneficiare di questa norma.

Di questa mia impressione ho avuto la conferma quando sono andato a frequentare l’istituto tecnico di Bergamo (Esperia). Nella mia classe eravamo solo in tre a provenire dall’avviamento professionale e avevamo, almeno all’inizio, meno difficoltà degli altri ad affrontare i programmi didattici.

Provenendo da una famiglia “di operai” (mio padre lavorava come carpentiere all’Italsider di Lovere allora chiamata Ferriera) e avendo altri due fratelli, l’orientamento era inevitabilmente l’avviamento al lavoro ma questo non mi creava dispiacere né invidie nei confronti di quelli più benestanti che potevano scegliere le medie.

Lovere è una bella cittadina che si affaccia nella parte finale del lago d’Iseo. L’acciaieria, che nei tempi si chiamava Ferriera (poi Italsider, Ilva e Lucchini) è in località “Castro” ed è stata costruita interamente su una piccola penisola che entra nel lago. L’acciaieria era diventata famosa per la produzione dei cosiddetti “assi” e cioè le ruote dei treni.

All’epoca dava lavoro ad alcune migliaia di operai della zona. La Rondinera distava circa 8 Km e mio padre si recava ogni giorno al lavoro in bicicletta, ma c’era anche chi era meno fortunato perchè, venendo dalla montagna e non potendo usare una bicicletta perchè le strade di montagna erano sterrate, si faceva ogni giorno una quindicina di chilometri a piedi per andare a lavorare.

Penso che la loro giornata tipo, considerando anche il viaggio, sarà stata almeno di 12 ore e tenendo presente che si lavorava obbligatoriamente anche la mezza giornata di sabato le ore di “tempo libero” erano veramente poche anche perché a casa quasi tutti avevano un po’ di campagna e animali domestici da accudire.

Carissimi nipotini, vi voglio raccontare i miei anni di adolescenza passati alla scuola dell’avviamento professionale, attraverso la storia del quadro che è appeso in cucina perché attorno ad esso e al pittore che lo ha dipinto, ruota e si definisce una parte importante della vita del vostro nonno, della vostra nonna, e del luogo dove i vostri nonni si sono trasferiti e dove voi siete nati.

Il quadro è stato dipinto a Lovere dal mio professore Remigio Mihich chiedendo in prestito i due soggetti (le due brocche in rame) al laboratorio di cesellatura Caprini.

Sistemate le due brocche su una elegante sedia con la seduta in paglia, appoggiato alla spalliera un lembo probabilmente di un tendaggio di casa propria e posizionato il tutto in modo che la luce esterna illuminasse il soggetto, era praticamente pronto il modello da dipingere.

Non sono un critico d’arte ma mi sembra molto indovinato il colore utilizzato per rendere l’effetto del rame e soprattutto molto bello il gioco di luce sul metallo.

Questa natura morta è stata donata inizialmente alla mia zia Letizia che conosceva bene, ancor prima di me, il professore Mihich in quanto prima di andare a Volpino, la mia zia Letizia e il mio zio Santo (per tutti “Santì”) avevano un negozio di panetteria nella parte vecchia di Lovere dove abitava anche il mio professore.

I miei carissimi zii Letizia e Santo erano due fratelli della mia mamma che non si sono mai sposati ma che hanno lavorato e vissuto assieme per tutta la vita. Di loro conservo un ricordo bellissimo e mi piacerebbe  più avanti dedicare loro un’intera lettera.

Questo quadro poi, alla morte della mia cara zia Letizia, venne dato a me e attualmente è l’unico quadro che ho appeso in casa e, oltre ad essere molto bello, quando lo guardo mi ricordo di tutte queste cose.

All’avviamento al lavoro c’era anche il corso di musica e mi sono avvicinato così, per la prima volta, al mondo non facile del solfeggio. Ricordo che, pur studiando, il risultato non era per niente scontato e il professore, un personaggio strano e particolare quale sono solitamente gli artisti, un giorno a fronte di un mia interrogazione di solfeggio probabilmente pietosa, prese il mio libro di solfeggio e lo scagliò con forza e furore nel cestino della carta.

Più avanti negli anni, attorno ai 40 anni, mi riavvicinai al mondo della musica iscrivendomi alla banda musicale di Osnago e riuscendo a imparare a suonare il sax tenore, ma anche questo è un argomento che mi piacerebbe approfondire in un’ulteriore lettera.

Fu proprio all’inizio dell’avviamento che ebbi la fortuna di incontrare il professor Remigio, insegnante di disegno tecnico e artistico. Anche se all’apparenza era una persona un poco brusca e sembrava incutere soggezione, nella sua materia era molto preparato e, nell’insegnamento, spesso si infiammava lasciando uscire la sua grande passione e competenza che riusciva a trasmettere anche ai suoi allievi.

Come denotava il suo cognome, era nato a Fiume quando Fiume era ancora italiana e aveva lavorato inizialmente nei cantieri navali della città e per questo spesso lasciava trapelare il suo amore per il mare e la sua passione e competenza per la cantieristica navale.

Fu lui ad avvicinarmi anche alla bella scrittura: per esempio per scrivere del buon corsivo il primo suggerimento fu di mettere il foglio a 45° rispetto al piano di lavoro.

Pian pianino si creò un rapporto particolare: lui credeva in me e io ero consapevole del suo valore e cercavo di approfittare il più possibile dei suoi insegnamenti.

Una volta venne anche a casa mia a mangiare e non smise per molto tempo di esaltare la bontà del pranzo anche se era una semplice cotoletta affiancata a delle polpette fatte con l’avanzo della panatura. Quando andò in pensione, si trasferì nella città di Bergamo.

Ogni tanto ci scambiavamo delle lettere come per esempio ne ricordo una particolarmente gradita di congratulazioni quando nel 1969 mi diplomai in perito tessile.

L’ultima volta che l’ho l’ho visto è stato nel febbraio nel 1975, quando andai a casa sua a portargli l’invito per le mie imminenti nozze.

Ricordo che era un poco affaticato nel camminare ma era lucido e mi ha accompagnato in una stanza mostrandomi, con orgoglio, tutti i suoi lavori di pittura. Lentamente le sue condizioni sono andate peggiorando e se ne è andato nell’estate del 1987. All’epoca mi feci vivo con la sua famiglia per porgere le mie condoglianze ma poi ci perdemmo di vista.

Comunque io continuo ad avere un grande sentimento di stima, amicizia e riconoscenza e, ogni volta che devo scrivere e inclino il foglio a 45°, il mio pensiero va inevitabilmente a lui.

Ritorno ora ai ricordi del periodo in cui ho frequentato l’avviamento professionale e cioè dagli undici a quattordici anni circa. La scuola era a Lovere e c’era un buon servizio di autobus che consentiva i miei spostamenti.

Le giornate si articolavano tra lezioni umanistiche del mattino e laboratori del pomeriggio; la settimana era molto impegnata perchè oltre all’impegno giornaliero a cui seguivano anche alcuni compiti a casa, si andava a scuola anche il sabato mattina.

E’ nei laboratori pomeridiani che ho imparato i primi insegnamenti per la lavorazione del legno con le varie raspe e con la pialla manuale (ricordate il racconto della culla per il mio primo nipote?).

E’ sempre in questi laboratori che ho incominciato a prendere confidenza con la lavorazione del ferro riuscendo alla fine del corso a costruire in ogni sua parte una morsa da lavoro.

Questi insegnamenti erano  basilari perchè all’inizio si trattava di imparare a tirare correttamente una raspa, nel caso del legno e una lima, nel caso del ferro, in modo da ottenere una superficie perfettamente piatta e vi assicuro non è una cosa scontata ma è una delle cose più difficili.

Il piano andava controllato in ogni sua direzione e c’era sempre una parte che era leggermente più bassa o più alta. Ho imparato poi ad usare il trapano, a filettare a mano e a utilizzare il calibro per le misurazioni esterne e interne.

Le macchine utensili del legno e del ferro le abbiamo solo avvicinate verso il terzo anno ma non ne abbiamo approfondito l’utilizzo.

Nel campo del disegno tecnico i primi insegnamenti erano rivolti al corretto uso delle due squadre (quella da 45° e quella da 60°) e anche questo non è per niente scontato. Un’altra cosa basilare era quella di imparare ad usare le matite o le mine nelle varie durezze e con la giusta forza della mano.

All’epoca poi, non esistevano le comode penne “tratto pen” nelle varie misure (dallo 0,1 allo 0,4 o oltre) e quindi bisognava imparare ad usare la penna a china naturalmente con i vari pennini. L’utilizzo della china veniva poi completato con l’utilizzo del compasso e del balaustrino, oltre che con le mine, con l’accessorio per la china.

Il disegno con la china, una volta acquisita la tecnica e la malizia, permetteva di realizzare dei bellissimi disegni, ma non era così facile perché la china tendeva a sporcare e ogni strumento (penne e accessori per i compasso) dovevano essere lavati e asciugati accuratamente  ad ogni utilizzo.

Seguì poi lo studio e l’acquisizione delle varie regole del disegno tecnico fino ad arrivare alle tecniche difficili ma affascinanti della prospettiva.

È sempre merito suo se, verso la fine del terzo anno ho partecipato, anche senza molte convinzioni, ad un concorso regionale indetto in memoria di un industriale del settore tessile e inaspettatamente l’ho vinto.

Il concorso metteva a disposizione le risorse finanziare necessarie per far studiare un ragazzo come perito tessile presso la prestigiosa Esperia di Bergamo, appoggiandosi all’altrettanto prestigioso convitto di via Pignolo, proprio a ridosso della porta di S.Agostino che introduce alla Città Alta.

Sarà questo fatto che modificherà il futuro della mia vita ma anche quello della vostra nonna e della famiglia che assieme siamo andati a formare.
Questo sarà l’argomento che andrò a sviluppare nella prossima lettera.

Un arrivederci da nonno Antonio

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2 commenti

  1. In questa storia di nonno Antonio mi sono rivisto in molte cose anch’io ho frequentato dal 1955 al 1958 la Scuola Avviamento Professionale Industriale G. Galilei di Torre Annunziata. Per molti anni ho sempre avuto il desiderio di contattare qualche alunno delle mie classe senza riuscirci. Per puro caso sono arrivato a questo sito e mi ha incuriosito il titolo “Gli anni della mia scuola di Avviamento Professionale di nonno Antonio”. Ora sono 42 anni che vivo a Formia (LT) e mi piacerebbe saperne di più della mia scuola di Torre Annunziata ma non sono riuscito a trovare niente.

    1. Author

      Grazie per il tuo commento. Speriamo tu possa in qualche modo recuperare qualche contatto. Un cordiale saluto!

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