La stalla di Nonno Antonio, antenata dei social di oggi

Carissimi nipoti,
dopo aver parlato della stalla come luogo di ricovero delle mucche e come laboratorio per le attività contadine, ora voglio descrivere la stalla, o meglio lo spazio accanto al ricovero delle mucche, come luogo di socializzazione e di cultura, antesignana dei social network odierni come Facebook, Instagram, Twitter…

Incominciamo con il dire che le case a quell’epoca non avevano un impianto di riscaldamento, tranne che un camino nel locale cucina che serviva quasi unicamente per cucinare. La legna comunque era preziosa e andava centellinata (vi ricordate la storia del protagonista del film l’albero degli zoccoli che, per aver tagliato abusivamente una piccola pianta di pioppo per rifare un paio di zoccoli al proprio figlio, viene mandato via dalla fattoria?).

Il locale più caldo della casa era quindi la stalla, perché il fiato di due mucche era sufficiente a dare quel tepore che rendeva piacevole sedersi nei lunghi pomeriggi o nelle sere invernali. Bisogna anche ricordare che a quell’epoca non esistevano radio, televisioni né telefoni (anche se ad onor del vero erano già stati scoperti ma non erano ancora alla portata di tutti). Il tempo libero veniva dunque impiegato ritrovandosi in gruppo con la famiglia e talvolta anche con le famiglie amiche e vicine di casa.

Il luogo ideale per questi incontri era la stalla, in quello spazio vuoto vicino alle mucche che abituate alla presenza dell’uomo continuavano tranquillamente a ruminare emettendo ogni tanto qualche muggito che poteva segnalare la loro richiesta di mangiare o di essere munte.  Questo spazio svolgeva, all’interno della casa, pressapoco la funzione che hanno le attuali sale. Quindi per assurdo la stalla, spoglia e a volte maleodorante (forse sarà stata l’abitudine o la conseguenza di una alimentazione completamente naturale delle mucche ma a me non sembrava un odore così sgradevole) aveva le stesse funzioni delle nostre super arredate e lussuose sale.

Ecco quindi che l’intera famiglia, come si vede nell’immagine qui sopra, si riunisce la sera nella stalla alla fioca luce di una lanterna (l’illuminazione elettrica non era ancora capillarmente diffusa perchè pochi potevano permettersela). Sullo sfondo si intravedono le due mucche; a fianco un piccolo deposito di fieno. Un bambino sembra giocare con il forcone che serve per alimentare il fieno alle mucche; la figlia probabilmente sta facendo i compiti e chiede aiuto alla mamma che si stacca, per risponderle, dalla sua occupazione che sembra essere quella di filare. I tre adulti, probabilmente il papà, il nonno o qualche zio, stanno chiacchierando della giornata appena trascorsa. Sullo sfondo della porta si può intravvedere un “giogo” e alcuni finimenti che servono per attaccare le mucche al carro. Qui c’è un po’ tutto il mondo che ho già cercato di raccontare nelle due lettere precedenti.

Volevo soffermarmi un attimo sulla presunta attività di studio della bambina.
All’epoca della mia infanzia ma ancor più all’epoca cui si riferisce questa immagine, i libri di scuola non erano certo numerosi come adesso. Consistevano principalmente di un abbecedario dove c’erano le nozioni di grammatica, un quadernetto, con la copertina nera e i bordi rossi che serviva per imparare a fare i conti e di una matita o “lapis”. Spesso e volentieri quindi i ragazzi facevano i loro compiti in questo locale e credo che da qui sia nato il detto “ti hanno mangiato i libri la mucca?” che veniva usato quando ci si trovava davanti ad una persona che, diventata adulta, non era culturalmente molto preparata perché probabilmente si era impegnata poco a studiare.

Al pomeriggio, nel periodo freddo, i ragazzi si riunivano in questo locale e qui, spesso esauriti frettolosamente i propri compiti, inventavano giochi primitivi fatti di gare di salto con la corda, lunghe partite di nascondino (non mancavano certo i luoghi per nascondersi). Si tracciava sul pavimento un reticolo con del gesso e si giocava a castello saltando con un piede solo. Quando poi si riusciva a recuperare qualche palla, certo non belle e decorate come ora, si giocava a battere e riprendere la palla contro il muro cantando “palla, pallina…”  cercando di prenderla un numero di volte sempre maggiore seguendo dei rituali ben precisi per esempio con il battimani, con la giravolta, con una mano sola, con un piede solo eccetera.

Un altro gioco molto in voga, che in base al numero,  veniva eseguito all’aperto era il girotondo. Sotto abbiamo una bella immagine del gioco “castello”. Altro gioco interessante era quello del salto della cavallina il quale si svolgeva prevalentemente all’aperto in modo che l’erba potesse attutire eventuali cadute. C’era poi, per chi era fortunato a possederle, il gioco delle biglie dove ogni giocatore, predisposto un tracciato, cercava di far convergere la propria biglia che si distingueva con un colore con un colore specifico, con un colpo del medio.

Nella stalla, dopo aver cercato dei rami che avessero una forma a “V” i ragazzi preparavano delle rudimentali fionde che avrebbero poi usato all’esterno cercando di colpire degli obiettivi simbolici quali scatole di latta o bottiglie di vetro.

Sempre relativo ai maschi era la preparazione della “Lippa” o “Ciangol” in dialetto bergamasco. Si trattava di preparare un legnetto con le estremità appuntite e un bastone simile ad un manico di scopa con il quale la lippa veniva colpita in una delle sue punte e, in virtù della sua conicità, si alzava dal terreno. Il gioco consisteva nel colpirla nuovamente lanciandola il più lontano possibile, in una direzione prefissata. Naturalmente questo era un gioco che andava fatto rigorosamente all’esterno e poteva risultare anche molto pericoloso.

L’attività più interessante che avveniva nella stalla erano però i racconti che i nonni facevano alla sera alle generazioni più giovani. Era un modo molto particolare di tramandare una cultura orale perchè “le storie”, un misto di racconti tra il reale e il fantastico, facevano sognare i bambini anche se a volte generavano in loro timori e paure. I racconti contenevano spesso i temi di fantasmi, di guerre e folletti.

Folletti “burloni” che rubavano, facevano sparire alcuni oggetti, facevano degli scherzi agli animali, creavano scompiglio e facevano dispetti ai bambini.

A questo proposito ricordo benissimo i racconti della mia mamma relativi alla sua infanzia. La mia povera mamma (la vostra bisnonna Maria) era del 1917 e quindi i fatti che raccontava erano collocabili tra il 1920 e il 1930. Raccontava, ancora con lo stesso timore e paura di allora, come nella sua casa natale a Castelfranco, spesso all’ora di pranzo i folletti burloni facevano sparire la polenta (quasi sempre unico alimento) che ritrovavano poi in qualche angolo sperduto della casa. Raccontava come spesso la notte sentivano dei rumori nel piano sotto cioè nella cucina e, scendendo, trovavano i pochi mobili, sedie e tavolo, completamente spostati.

Raccontava come alcune volte, andando nella stalla, trovavano la coda del cavallo intrecciata. Il mio povero papà (il vostro bisnonno Piero che era del 1916) raccontava che una sera, mentre stava andando a piedi verso Castello, ha visto una processione funebre con tanto di cassa da morto portata a spalle. Lo spavento fu talmente grande che la paura gli bloccò i denti (o meglio la mascella perchè non era più in grado di aprire la bocca). Tornato a casa i suoi genitori per aprirla, dovettero fare leva con il manico di un cucchiaio.

La spiegazione di questi eventi non erano in grado di trovarla; i più scettici dicevano che era la gran fame a spingere qualche burlone “domestico” a fare questi scherzi. Loro però ci credevano e dicevano che gli spiriti cattivi erano stati confinati dal Concilio di Trento anche se questo si era tenuto nella metà del 1500.

A volte, come nei rari e non ancora conosciuti fenomeni di autocombustione, si attribuivano questi incendi a forze superiori che sarebbero intervenute per punire atteggiamenti poco onesti. C’erano poi le storie in cui il diavolo faceva da padrone e anche in questo caso interveniva a punire situazioni non corrette. La fama del lupo cattivo veniva esaltata con cantilene che sembravano studiate ad arte, anche nel tono narrativo, per intimorire i bambini e non solo.

Io non conosco la psicologia spicciola dei tempi di allora ma sembra che attraverso la paura si potesse imparare ad avere atteggiamenti di rispetto degli altri e delle regole del giusto vivere.

Certo che i tempi sono radicalmente cambiati ed ora sembra che anche il lupo di Cappuccetto Rosso debba essere riabilitato. Sembra che la crudele storia del lupo e dei sette capretti debba essere modificata nel finale, sembra che storie di streghe cattive e orchi che rapiscono e mangiano i bambini debbano essere abolite.

Cari nipotini, io non sono in grado di darvi delle indicazioni precise sull’argomento: mi rendo conto anch’io, leggendovi delle fiabe antiche, che a volte vi spaventate e quindi cerco di modificarne o attenuarne il finale.

Di una cosa però sono certo (mi riferisco ai tanti cartoni animati in cui la violenza la fa da padrone) che la violenza di alcune scene può generare paure nei più piccoli come o forse più di quelle che generavano nei ragazzi di allora certe favole. Quindi sono sicuramente da preferire le belle fiabe che liberano la fantasia e la curiosità dei piccoli. Non avendo molto altro di mio da dire, mi affido ad una piccola inchiesta dello scrittore contemporaneo di fiabe Antonio Moresco di cui riporto parte dell’intervista.

Qual è la sua fiaba preferita?
La mia fiaba preferita è la bambina dei fiammiferi di Andersen.

In quale personaggio fiabesco si identifica maggiormente?
Nella bambina dei fiammiferi e nel Soldatino di stagno, fiabe che hanno a che vedere con il fuoco.

Lei nel suo libro sostiene che “le fiabe sono state inventate da bambini che sono poi diventati adulti e da adulti che sono diventati bambini”. Quali fiabe consiglia di leggere a un adulto, che, durante la lettura, vuole tornare bambino?
Le fiabe adatte sarebbero molte (Cappuccetto Rosso, La bella addormentata nel bosco, Peter Pan, per andare ai nostri giorni Harry Potter ecc…). Ma la fiaba che mi sembra più profonda e potente per compire questo percorso di conoscenza è Pinocchio.

Nella società di oggi raccontare le fiabe ai più piccoli è ancora un valore o è una  tradizione che si è persa?
A mio parere bisogna continuare a raccontare fiabe ai bambini, inventandone a nostra volta di nuove. Non so e non posso dire con precisione cosa stia succedendo oggi nelle case e nelle camere da letto dei bambini, ma è probabile che la pratica di accompagnare le menti e i cuori dei bambini con degli emblemi di fiaba sia in forte diminuzione. Ragione di più per andare contro corrente.

Perchè è importante raccontare le fiabe oggi?
Raccontare le fiabe, dissotterrare il territorio mitico che giace nel nostro immaginario personale e di specie, non spezzare il filo della visione che tiene legate le generazioni è di grande importanza, perchè la fiaba ci rende più forti e capaci di metamorfosi, perchè ci dice la verità anche sulla presenza del male e del dolore nel mondo e sulla necessità di combatterlo, e anche perchè, come suol dirsi…non di solo pane vive l’uomo.

Quindi cari nonni e genitori, lasciamo spenti il più possibile televisori, computer e telefonini e continuiamo ad intrattenere e addormentare i nostri nipoti e i nostri figli con delle belle favole.

Un caro saluto e un arrivederci alla prossima,
Nonno Antonio

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *